Linguaggio inclusivo: perché usarlo sul lavoro e nella vita di tutti i giorni
Il linguaggio inclusivo, non solo per chi scrive o traduce per professione
La parola degli anni Dieci
Negli ultimi mesi del 2019 è circolata molto un’importante domanda esistenziale: il 2020 è o non è l’inizio di un nuovo decennio? Mentre matematici e linguisti discutevano a colpi di interpretazioni senza poter arrivare a una risposta definitiva, praticamente tutti i media tradizionali e non tradizionali hanno tirato le somme sugli anni Dieci del Duemila. I giornali hanno elencato le loro notizie più lette, le testate musicali hanno stilato la classifica dei migliori dischi, quelle calcistiche hanno riproposto i gol più memorabili e via dicendo.
Non sono mancati anche i riepiloghi in ambito linguistico. Ad esempio, il 3 gennaio 2020, l’American Dialect Society ha decretato che la parola del decennio 2010‑2019 è il singular they. Questo uso del pronome, già registrato nel XIV secolo, si è attestato negli ultimi anni come espediente linguistico per riferirsi a persone che si identificano in un genere non binario, ma è anche un modo pratico per rivolgersi a uomini e donne senza fare distinzioni. Non era l’unica parola “impegnata” in corsa: tra le altre candidate c’erano #BlackLivesMatter, climate e #MeToo, tutti concetti legati a battaglie sociali o ambientali. La selezione non è stata un sotterfugio per sensibilizzare la popolazione su certi temi. Semmai, è il segno di tempi che cambiano. E non solo negli Stati Uniti.
La società di domani
L’American Dialect Society, come la nostra Accademia della Crusca, registra e descrive l’evoluzione della lingua nazionale, senza pretese prescrittive e con un atteggiamento curioso e divertito. La scelta del singular they è figlia di una maggiore attenzione verso le tematiche di genere da parte della società statunitense. O perlomeno, da parte di quella fetta di popolazione capace di apprezzare la varietà e rispettare persone di cultura, religione e razza diversa dalla propria. Può essere difficile crederlo in un momento in cui i cittadini di alcuni paesi musulmani non possono entrare negli Stati Uniti e i figli minorenni di immigrati vengono separati dai genitori. Ma è pur vero che non sempre un governo è l’espressione del meglio della propria nazione.
Al contrario, esiste un settore molto interessato a seguire e assecondare con rapidità i cambiamenti sociali: il marketing. Già in un altro articolo avevo parlato delle campagne The Best Men Can Be e First Shave di Gilette, ma non sono l’unico esempio. Nel 2019 Nike ha ideato la campagna Dream Crazy, che ha avuto come testimonial un quarterback afroamericano impegnato nella lotta antirazzista, ma ha anche lanciato un costume integrale per nuotatrici di religione musulmana. Kleenex, Lynx e persino la Royal Air Force hanno abbracciato cause sociali o rivisto il proprio tono di voce. Insomma, molti grandi brand stanno cambiando la propria immagine e i propri prodotti per raggiungere un target vario e multiculturale. Non per ideologia, certo, ma per guadagnare nuove fette di mercato, come la generazione Z. In uno studio del 2017 condotto su un campione italiano, questa popolazione è risultata piuttosto sensibile alle pubblicità che mostrano famiglie non tradizionali e persone di etnie o identità sessuali diverse dalla propria.
Spostiamo la prospettiva e consideriamo questi numeri per quello che sono, ovvero persone. La generazione Z corrisponde a quelle nate tra il 1997 e il 2012: se già durante l’adolescenza riescono a dar valore alle differenze di genere, razza e religione, possiamo sperare che la società di domani sarà forse un po’ più equa e meno diseguale. Per la cronaca: “ineguaglianza”, “disuguaglianza” sono tra le parole italiane del decennio 2010‑2019 per Il Corriere e Wired, che include anche “genere”, “identità” e “clima“. Prepariamoci a sentirle pronunciare spesso nei prossimi anni, insieme a “pandemia”, “coronavirus” e altre “parole infette”.
Descrivere e cambiare il mondo
Queste considerazioni possono sembrare un po’ fini a se stesse, ma in realtà si proiettano anche nella nostra vita di tutti i giorni. L’inclusività di genere è un processo complesso e graduale, che passa anche tramite il modo in cui ci esprimiamo. È difficile imporre a una società di parlare o scrivere in un determinato modo; per contro, piccoli cambiamenti quotidiani possono pian piano arrivare a influenzare la lingua e la società. Che è poi ciò che è successo al singular they, ormai considerato corretto e preferibile da importanti istituzioni linguistiche e usato anche dalla gente comune.
Certo, ci saranno sempre persone che valuteranno accorgimenti simili una forzatura inutile o un affronto alla grammatica. Ma dato che siamo esseri sociali e non ci muoviamo nel vuoto stagno, curare il modo in cui ci esprimiamo può essere visto perlomeno come un atto di considerazione e gentilezza verso chi ci legge o ascolta, specie quando non sappiamo chi è. Ma non solo: è anche un modo per riappropriarsi di uno spazio nel mondo. Come dice Vera Gheno in Potere alle parole:
La vera libertà di una persona passa dalla conquista delle parole: più siamo competenti nel padroneggiarle, scegliendo quelle più adatte al contesto in cui ci troviamo, più sarà completa e soddisfacente la nostra partecipazione alla società della comunicazione.
Maschile “neutro” e bias di genere
Ahinoi, scrivere in modo inclusivo in italiano è più difficile che in inglese. Per sua natura, la nostra lingua non è gender‑neutral: come in altre lingue romanze, i sostantivi sono o maschili o femminili, e possiamo concordare al maschile o al femminile aggettivi, pronomi e participi, tanto plurali quanto singolari. Per convenzione grammaticale, il maschile può agire come una sorta di “neutro”. Questo uso sovraesteso, che risale ad anni in cui non si faceva così caso alle questioni di genere, viene oggi considerato da molte persone discriminatorio, perché rende invisibile il genere femminile.
Sul fatto che ciò sia solo una questione di economia o lo specchio di una lingua sessista ci si può discutere a lungo. Per contro, è indubbio che in italiano certe parole assumono una connotazione diversa quando declinate al femminile: “cortigiana”, “massaggiatrice” e “squillo” sono solo tre di quelle elencate da Stefano Bartezzaghi e riprese da Paola Cortellesi in un monologo nel 2018. A prescindere dal fatto che sia o meno figlio di una società androcentrica, l’uso prevalente del genere maschile rispetto al femminile ha degli effetti discriminatori dimostrabili. Per supportare questa affermazione ci viene in aiuto uno strumento che, di per sé, non può avere alcun bias di genere: l’intelligenza artificiale.
Traduzione automatica e motori di ricerca
Nel 2018, due studiosi di Stanford hanno denunciato come Google Traduttore usasse spesso pronomi maschili nel testo di destinazione anche se il soggetto nel sorgente era femminile. Non è che sia programmato per essere sessista: il suo algoritmo apprende senza filtri da centinaia di milioni di testi online già tradotti. Se “leggendo” testi prodotti da umani un’intelligenza artificiale “impara” che “dottore” è quasi sempre declinato al maschile e “infermiera” quasi sempre al femminile, significa che in quei testi c’è un bias di genere. Per risolvere il problema, Google ha modificato l’algoritmo nel 2018 e nel 2020, ma è probabile che ci saranno altri aggiornamenti in futuro.
La traduzione automatica non è l’unico esempio pratico. Come segnalato da una traduttrice francese su Twitter, usare traducteur come parola chiave su Linkedin esclude dai risultati i profili in cui compare traductrice. Difficile quantificare quanto problemi simili contribuiscano al divario retributivo di genere, ma la relazione tra uso dell’intelligenza artificiale e discriminazione delle donne in ambito lavorativo non è una novità. Anche in questo caso, Linkedin ha risposto che lavorerà per sistemare l’anomalia. Dettaglio che sembra dimostrare la pertinenza della segnalazione.
La correzione degli algoritmi è solo un punto di partenza. Finché i testi su cui si basa il machine learning mostrano una prevalenza del maschile “neutro” rispetto al femminile, l’intelligenza artificiale continuerà a replicare il bias. Non fare nulla per contrastare gli stereotipi di genere può anche rendere meno equi gli algoritmi che regolano la nostra vita di tutti i giorni. Un ultimo esempio? Se cerchiamo su Google Immagini “presidente” e “assistente”, nel primo caso vediamo in prevalenza foto di uomini, nel secondo in prevalenza foto di donne. L’immagine che ne ricaviamo è un mondo dove gli uomini occupano i posti di potere e le donne stanno un passo indietro a guardarli mentre lavorano. Ci sta bene? Se la risposta è no, usare un linguaggio inclusivo è un modo per “insegnare” anche alle macchine che la realtà è più complicata di così.
Oltre la dicotomia dei generi
La polarizzazione maschio‑femmina è ancora dominante nella lingua e nella cultura in gran parte del mondo, ma la situazione sta cambiando. Uno studio del 2017 ha rilevato che il 20% dei Millennial statunitensi dichiara di essere LGBTQ, mentre uno studio del 2019 che un terzo della Generazione Z conosce almeno una persona che preferisce il singular they. Ma anche in Italia il numero di adolescenti che si definisce gender‑fluid è in crescita. Che piaccia o meno, le persone che si riconoscono in un genere non binario esistono e meritano di far parte della società della comunicazione. Come scriventi, professionisti o meno, non possiamo ignorarle a piè pari. Il punto è: come ci riferiamo a loro?
In diversi paesi si è diffusa l’abitudine a indicare sui propri profili social il proprio pronome di riferimento. Ma pur sapendo che chi sta dall’altra parte dello schermo o del foglio si identifica in un genere non binario, per noi il problema resta: in italiano non abbiamo ancora forme normate o affermate nell’uso per i generi diversi da maschio e femmina. Le comunità LGBTQ+ stanno cercando di diffondere nuove soluzioni linguistiche, come pronomi e desinenze non convenzionali, ma il loro destino non si può decidere a tavolino: perché attecchiscano, devono entrare nell’uso comune. Nel frattempo, scrivere nel modo più neutro e inclusivo possibile ci aiuta a non invisibilizzare alcuna categoria di persona. Che è già un buon punto di partenza.
Le implicazioni pratiche per chi scrive per lavoro
Al di là della sensibilità e volontà personale nel rispettare la diversità di genere, potrebbero intervenire fattori esterni, ad esempio la richiesta esplicita da parte di un’azienda o un ente. Se lavori nell’ambito della traduzione o della comunicazione, potresti dover scrivere senza riferimenti di genere come specifico requisito di stile, anche in testi tecnici. Prendiamo qualche esempio di contenuti in cui potrebbe capitarti.
Quando scriviamo o traduciamo newsletter, contenuti di assistenza clienti o post per i social media, quante volte ci rivolgiamo a un’audience omogenea? Direi quasi mai. Usare forme tipo “Grazie per esserti registrato” o “Quanto sei soddisfatto del nostro servizio?” potrebbe far storcere il naso a una donna o una persona che non si identifica in un genere binario. Può sembrare una cosa da poco, ma sa se per questo dettaglio annullasse la sua iscrizione o passasse ai prodotti di un’azienda più attenta alle questioni di genere?
Per molti anni il problema dei generi nella scrittura non mi ha proprio sfiorata […] La mia sensibilità è cambiata da quando essere apostrofata come se fossi un maschio ha cominciato a darmi parecchio fastidio.
Luisa Carrada, Ma io sono una signora!
In software, portali e applicazioni per dispositivi mobili, il nome utente è spesso un segnaposto dinamico inserito all’interno di un testo statico. Come tradurresti Your friend [nome] has invited to edit an online folder? Sia la persona che invita sia quella invitata potrebbero essere donne o non identificarsi in un genere binario: “amico” e “invitato” non andrebbero bene in ogni caso. Che poi, per dirne una, “il tuo amico Maria” è un problema di grammatica ancora prima che di neutralità.
Un altro ambito in cui la scrittura inclusiva sta diventando uno standard sono le applicazioni dell’intelligenza artificiale come i chatbot e gli assistenti vocali, per i motivi che abbiamo visto poco più su. Potresti ad esempio prendere parte alla creazione del database di stringhe che saranno utilizzate dalla macchina per riferirsi alla persona che la sta interrogando. Dato che non si può sapere chi ci sarà dall’altra parte, dovrai scriverle tutte in modo neutrale. Ma non solo: potresti anche dover neutralizzare la macchina stessa, che non potrà riferirsi a sé stessa con pronomi né maschili né femminili. Questo almeno quando all’assistente non viene dato un nome e un volto umano.
Attenzione, creatività e qualche dritta
Anche se non abbiamo una soluzione comoda come il singular they, non significa che dobbiamo tirare i remi in barca. Scrivere in modo inclusivo in italiano non è semplice, ma nemmeno impossibile: basta usare la nostra lingua con attenzione e creatività. Che dovrebbe poi essere il requisito minimo per scrivere qualsiasi tipo di testo, no?
Esistono numerose istituzioni ed enti che hanno redatto linee guida più o meno dettagliate a riguardo. Per aiutare tutte quelle persone a cui venga richiesto di scrivere in modo inclusivo e non sappiano bene cosa significa, ho cercato di raggruppare le indicazioni più comuni in una guida pratica e arricchirle con esempi basati sulla mia esperienza personale come traduttore e autore di testi per il Web. Seleziona il pulsante qui sotto per leggerla e scoprire come trattare nel modo più equo possibile i generi maschile, femminile e non binario quando scrivi.
Articolo pubblicato originariamente sul blog TDM Magazine il 14 maggio 2020.